La ricerca della verità è un desiderio insopprimibile dell’uomo e della sua natura. Così per la scienza. Così per il processo penale che è regolato da norme che sottendono principi filosofici, sin dalla sua ossatura: la tesi della pubblica accusa, l’antitesi della difesa dell’imputato e la sintesi di esso, cui si perviene con la decisione del giudice.
«Il linguaggio hegeliano – afferma Imre Lakatos – dà una visione globale del movimento dialettico del processo penale».
La verità processuale e, ancor più, la colpevolezza dell’imputato vanno ricercate e dimostrate al di là di ogni ragionevole dubbio.
Ecco la ragione per la quale, seguendo l’insegnamento di Karl Popper, dobbiamo essere consapevoli di non conoscere direttamente la vicenda processuale, di conseguenza dobbiamo essere molto modesti e, in particolare, estremamente cauti. Come fare, o meglio, come mantenere intatta la nostra neutralità psichica anche di fronte alla spettacolarizzazione del processo?
Abbiamo bisogno di un’intelligenza artificiale, di un algoritmo? Non secondo Popper che, al contrario, ci consiglia: «Per vedere la verità ci sono stati dati gli occhi e per riflettere su di essa ci è stata data la “luce naturale” della ragione», con il ricorso – aggiungiamo – allo stupore, alla meraviglia del bambino in noi e all’ingenua dolcezza della sua anima. In questo modo purifichiamo la nostra mente da ogni anticipazione, da qualsiasi pregiudizio.D’altronde, «L’adulto deve farsi umile e imparare dal bambino a essere grande». Ci insegna Maria Montessori.