Così, sono avvocato e sono trascorsi molti anni da quando, il 14 dicembre 1955, vestito di nero con la mano destra alzata, unico postulante davanti ai nove giudici che componevano l’intero Tribunale d’appello di allora, con un po’ di orgoglio e tanta emozione, ho letto la bella formula del giuramento dell’avvocato. In quel tempo, in Ticino, un avvocato era “qualcuno”, come si usava dire. Probabilmente perché ve ne erano pochi e ogni nuovo arrivato era salutato dalla stampa e festeggiato non solo dai famigliari, ma anche da amici e conoscenti, dal Pretore e da qualche collega anziano che non temeva più la concorrenza. È stato così anche per me. Che cosa rimane oggi del prestigio professionale di quel tempo? Poca cosa. Persino la formula del giuramento è stata sfrondata. Certo, i fatti si sono succeduti in modo vertiginoso e con essi le idee e i costumi si sono evoluti; ma anche noi avvocati, con la nostra superficialità, il nostro arrivismo, i nostri abusi, i nostri vizi capitali insomma, perché siamo uomini né più né meno degli altri, abbiamo contribuito al suo discredito agli occhi di molti. Eppure, nonostante questo e l’ironia immortalata nei disegni di Daumier, la nostra professione rimane fra tutte una delle più belle e delle più nobili. Chi, infatti, meglio dell’avvocato, può portare concretamente conforto allo sconforto e protezione agli interessi quando la meritano, infondendo al tempo stesso il coraggio di continuare nonostante tutto? E chi, se non l’avvocato, è in grado di assolvere la funzione, che da sola ne giustifica l’esistenza, di difendere l’individuo contro le manifestazioni perverse della società generate dall’arroganza del potere?