Leiden, 18 giugno 1682.
Nella prestigiosa Università fondata nel 1575 da Guglielmo d’Orange consegue il grado di Juris Utriusque Doctor, neppure ventenne, Cornelis van Eck, brillante allievo del grande Johannes Voet. La sua disputatio inauguralis propone, per la prima volta nella scienza giuridica europea, il contestuale esame coordinato, quasi alla ricerca di un microsistema normativo, di sette frammenti – di Africano, Giuliano, Paolo, Scevola ed Ulpiano – confluiti nel Digesto e divenuti presto famosi – o, forse meglio, famigerati – nella comunità scientifica dei giuristi per la loro estrema complessità, e per questo battezzati come leges damnatae.
Il giovane giurista ne riconfigura autonomamente il florilegio tradizionale, di verosimile origine medievale, in armonia con le suggestioni che emergevano, sul sostrato del Cinquecento francese, nella riflessione della Scuola elegante, polarizzando la loro scelta in modo da valorizzare, in esito ad un ambizioso progetto costruttivo, tematiche di centrale importanza nella cultura della fine del Secolo d’Oro olandese: l’accesso al credito, le sue regole invalicabili e la legittima remunerazione del rischio e del capitale; il mercato – merci e vivande – e la sua dimensione associativa; il lascito testamentario e la sua stabilità.
Proporre una traduzione critica di questo interessante – e fortunato – lavoro consente di offrire al dibattito scientifico contemporaneo, non solo romanistico, un’occasione per ripensare ad alcuni iura che, per secoli, hanno creato aporie e dilemmi – le cruces dei giuristi europei – ancora per certi versi irrisolti, così da costituire a tutt’oggi una sfida anche per l’attuale esegeta, perché la giurisprudenza romana – scrive Cornelis van Eck nella premessa alla disputatio – è come i misteri di Eleusi: nel suo patrimonio sapienziale c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire.