Se volgiamo uno sguardo limpido alla vita di tutti noi, la felicità vuol dire edificare e mantenere, attraverso conoscenze e azioni, la nostra natura di esseri razionali e morali. Intrecciare buone relazioni con noi stes- si, gli altri e l’ambiente, mentre ci si adatta a circostanze destabilizzanti e a fattori aggressivi esterni, come pure agli assalti che colpiscono dal di dentro, per la debolezza della condizione umana e il suo spontaneo deterioramento col trascorrere del tempo.
D’altra parte la felicità è il bene supremo e finale, sicché, se non lo si raggiunge nel tratto conclusivo della nostra corsa, è come se mai lo avessimo conosciuto.
È possibile, allora, essere felici anche in una RSA? Pur trovandosi lì ospi- tati in quanto persone sul viale del tramonto? Persino prive di piena padronanza di se stesse? Il libro si interroga su quale sia la cornice esi- stenziale adatta a favorire una qualità di vita da cui emergano, se non stati d’animo con lucida coscienza, almeno sensazioni ed emozioni, che rendano sereni e quasi grati di una sorte, per tanti versi e nonostante tutto, che può essere considerata buona. Buona sorte: in greco eudai- monia, in latino beatitudo!
In tal senso la sua lettura è consigliabile certamente: •a quanti usufruiscono delle RSA e ai loro famigliari, per meglio capire quale tipo di “vita”, prima ancora di quale livello dei servizi, vi posso- no trovare; •a quanti vi lavorano per trarne spunti di sforzo gratificante; •a quanti programmano o vigilano sulle RSA, per facilitare la compren- sione dei benefici esistenziali che queste arrecano; •a quanti le costruiscono così da renderle confortevoli oltre che prote- siche; •ai gestori, per precisare più elevati livelli di efficienza ed efficacia dei servizi erogati; •a quanti nutrono ancora pregiudizi sul clima professionale e umano che vi si respira.