Per quale ragione agire per un motivo abietto o per un fine discriminatorio dovrebbe meritare una pena più severa rispetto a quella comunque applicabile al reato commesso? Il volume si occupa di una questione di particolare attualità (sottesa fra l’altro al recente dibattito pubblico e accademico sul cd. «ddl Zan») e di rilievo comparatistico. Concentrandosi sui cd. «crimini d’odio» (bias crimes, hate crimes) e sulle strategie di contrasto alla violenza discriminatoria, lo studio esamina le teorie intese a sostenere la necessità di tutele rafforzate a favore dei gruppi minoritari o vulnerabili. Si discute la tesi – non nuova, ma recentemente riscoperta e di crescente successo anche in Italia, sulla scorta di una concezione della pena quale «azione positiva» –, che intende promuovere regimi differenziati per tipi di autore (non più un tabù) e tipi di vittima, a partire dall’idea di assegnare all’eguaglianza sostanziale una funzione criminalizzante idonea a ricalibrare in chiave compensativa l’esercizio del potere punitivo. Si argomenta che quella tesi – specie in alcune sue positivizzazioni – rischia di tradire anche il proprio spirito solidaristico, poiché dimentica il valore personalistico dell’eguaglianza sostanziale, veicolando visioni illiberali, vetero-moraleggianti e neopositivistiche sul senso e gli scopi della pena. Lo studio valuta l’opzione, costituzionalmente difendibile, di ricorrere al diritto penale quale mezzo sussidiario di tutela dell’eguale autodeterminazione (pari dignità), proponendo una riconfigurazione conforme ai principi di offensività e colpevolezza della circostanza aggravante attualmente disciplinata dall’art. 604-ter del codice penale.